Divina Commedia

Inferno

Legno: tronco di ulivo
Origine: Rodi
Anno: 2003

Quivi sospiri, pianti e alti guai
Risonavan per l’aere sanza;
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira”.

Il gruppo scultoreo nel suo intrecciarsi movimentato e caotico, tra balzi, guizzi e urti di figure non tutte definite, vuole trasmettere l’idea del tormento e della costrizione, la giusta pena (“Giustizia mosse il mio alto fattore”) riservata a “la perduta gente”.
Lo scultore muove la sua creazione sul fondamento della sua fede, richiamandosi alla visione dantesca del III canto dell’Inferno, sebbene per sua libertà d’artista venga ad inserire nella composizione un figura non appartenente a quel canto: Salomé che regge in alto la testa di San Giovanni Battista. L’immagine è forte: la vanità, il desiderio sfrenato di potere e di ricchezza de “le genti dolorose / c’hanno perduto il ben de l’intelletto” pretende il delitto e il sacrificio cruento dell’uomo virtuoso. 

Testo di Paolo Bottero


Purgatorio

Legno: tronco di ulivo
Origine: Rodi
Anno: 2004

“…canterò di quel secondo regno
Dove l’umano spirito si purga
E di salire al ciel diventa degno

L’artista, ispirandosi alla seconda Cantica dantesca, concretizza nel gruppo scultoreo la sua visione della morte per contaminazione da peccato e della risurrezione per fede; l’ispirazione proviene dalla memoria storica di uno dei momenti più tragici della degenerazione umana: la bomba di Hiroshima. L’uomo non è più vittima impotente della morte (a destra in basso un teschio dell’uomo di Neanderthal), ma egli stesso produce morte e distruzione, a sommo della sua pazzia.
Due le figure centrali contrapposte: Cristo, che rinuncia al potere che contamina la libertà dell’uomo; la Vanità che lo desidera morbosamente.
Ma, l’uomo redento “Libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta”.
In contrapposizione al desiderio sfrenato del possesso e dell’affermazione di sé ecco che lo scultore propone l’accettazione dei propri limiti (“Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone. / State contenti, umana gente, al quia…”) e l’accettazione serena della vecchiaia, raffigurata nella scultura come disfacimento fisico.
All’artista sembra non importare il vano eloquio del mondo: ancora vede nella ragione e nella fede la sua guida:

Vien dietro a me, e lascia dir le genti;
sta come torre ferma che non crolla
già mai la cima per soffiar de’ venti”.

Su tutta la rappresentazione domina il fuoco purificatore del Purgatorio.

Testo di Paolo Bottero


Paradiso

Legno: tronco di ulivo
Origine: Rodi
Anno: 2002

La gloria di Colui che tutto move
per l’universo penetra e risplende…”

Il gruppo scultoreo assembla tutta una serie di motivi che l’artista desume dalla sua fede, appoggiata anche alla lettura della Cantica dantesca del Paradiso.
Il braccio teso verso l’alto, verso Dio Creatore (“l’amor che move il sole e l’altre stelle”) e Luce dell’universo (“…luce eterna che sola in te sidi / sola t’intendi…”), è il braccio dell’Adamo michelangiolesco che riceve dal braccio divino la vita: l’uomo è illuminato dalla fede trasmessa dalle due figure di Abramo e di Mosé che parlano per bocca di Spirito Santo (raffigurato nelle cinque colombe) così come dai quattro Evangelisti (Giovanni, Matteo, Luca e Marco).
Al centro è la figura di Cristo che, sconfitta la morte, sta elevandosi al di là della miseria della natura umana, ancora presente in Maria di Magdala che gli sta accanto, ma alla quale Cristo ha già ordinato: “Noli me tangere!”, non mi toccare.
Due arcangeli si muovono intorno: Michele, che chiama gli uomini al Giudizio universale, e Gabriele, nell’atto di annunciare l’evento determinante per la storia umana.
Nei pressi è raffigurata la Madonna che abbraccia ancora ansiosa il Figlio adolescente, ritrovato Maestro tra i dottori del Tempio: un Figlio che riassume in sé tutta l’umanità che giungere può a Dio soltanto tramite Maria: 

 “Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia ed a te non ricorre,
sua disianza vuol volar senz’ali”.

Il tutto è sostenuto da 21 angeli, secondo antica consuetudine rappresentativa di tutta l’arte figurativa cristiana.

Testo di Paolo Bottero


Caronte

Legno: tronco di pioppo
Origine: Valle Stura
Anno: 2007

“…Ed ecco verso noi venir per nave
Un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: ‘Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva,
ne le tenebre eterne, in caldo e ‘n gelo…”

La scultura propone la mitica figura del traghettatore delle anime al di là de “…la trista riviera d’Acheronte”, così come Dante la immagina nel Canto III dell’Inferno. Seguendo la visione del sommo poeta, lo scultore rappresenta con estremo realismo il

“…nocchier de la livida palude,
che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote”.

Come il peccato di origine contiene tutto il male, la palude è “livida” perché il peccato è nato dal livore, dall’invidia del diavolo. E un diavolo è anche Caronte stesso. Per dissipare ogni equivoco ed ogni eventuale simpatia per il “vecchio bianco”, Dante è esplicito:

Caròn dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutti li raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia”.

Nessuna dell’anime di peccatori può permettersi di sedere sul fondo della barca (“s’adagia”): tutte devono star ritte in piedi, ormai anch’esse equiparate al demonio, a Caronte che, nella sua figura grande, possente, spaventosa realizzata dallo scultore, rende perfettamente l’idea del peccato, atto prevaricatore, sfida superba a Dio.

Testo di Paolo Bottero


Le Arpie

Legno: tronco di palma
Origine: Marocco
Anno: 1994

Tra i loro rami

“…le brutte Arpie lor nidi fanno
……………………………………………….
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ‘l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani” *

* Inferno, Canto XIII, versi 10, 13-15

Dante pone la dimora delle Arpie nell’Inferno, nella selva dei suicidi che, avendo fatto violenza su se stessi, sono costretti alla innaturale condizione di uomini-albero (“Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”).
Secondo il mito greco più antico (veicolato da Esiodo e poi da Omero nel Canto XX del poema “Odissea”) questi strani uccelli, dal corpo di donna vecchia e avvizzita emanante un lezzo ributtante, impersonavano i venti di burrasca, rapivano i naufraghi e li trasportavano nelle grotte delle misteriose isole Strofadi.
Altri miti successivi le trasformarono in esseri infernali:

“Erano sette in una schera, e tutte
volto di donne avean pallide e smorte,
per lunga fame attenuate e asciutte
orribili a veder più che la morte:
l’alacce grandi avean deformi e brutte
le man rapaci, e l’ugne incurve e torte;
grande e fetido il ventre, e lunga coda
come di serpe che s’aggira e snoda”.

Così Ludovico Ariosto descrive le Arpie nel Canto XXXIII del poema “Orlando Furioso”.
L’artista rimanda a due celebri episodi: il suicidio per amore disperato che suppone l’unione impedita in questa vita realizzata nell’altra; al contrario, lo scultore pone l’accento sull’azione peccaminosa del suicidio, rappresentando l’eterna disperata separazione operata da un fauno diabolico. Dietro a costoro è raffigurato il suicidio di Giuda che si impicca: lo strumento di morte lo fissa per l’eternità nel regno del Male.
Una figura umana a pezzi è indicata dallo scultore quale esito della morte violenta con la quale il suicida spezza la propria umanità:

ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie” *

* Inferno, Canto XIII, verso 105

Testo di Paolo Bottero


La violenza del male
Caino e Abele

Legno: tronco di pino rosso
Origine: Cogne (Aosta)
Anno: 1992

Dante pone i violenti ne

la riviera del sangue, in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia

I violenti sono preda dell’ira folle e bestiale, dell’iniqua volontà:

Oh cieca cupidigia, e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’eterna poi sì mal c’immolle”.

(Inferno, Canto XII, versi 47-51)

Caino si scagliò contro Abele, suo fratello, e lo uccise

(Genesi 4, 8)

La violenza e il male sono la conseguenza del peccato.
Frutto della ribellione dell’uomo contro Dio è la lotta dell’uomo contro l’uomo, del fratello contro il fratello, è “bellum contra omnes” perché “homo homini lupus”, secondo il celebre aforisma di Thomas Hobbes.
Lo scultore rappresenta il momento culminante della violenza dell’uomo sull’uomo: l’odio è alimentato dal Male raffigurato nel serpente infernale.
Sulla schiena di Caino si annida il Male con ghigno feroce: la lotta del male contro il bene da quell’inizio nella notte dei tempi si perpetuerà per i millenni a venire, fino ai nostri giorni ove con feroce abbondanza si dispiega come non mai.
La punizione divina è comunque inesorabile:

La voce del sangue di tuo fratello grida dalla terra e giunge sino a me.
Sii tu dunque maledetto e cacciato dalla terra, che ha aperto la bocca per ricevere dalla tua mano il sangue di tuo fratello

(Genesi, 4, 10-11).

Testo di Paolo Bottero